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mercoledì 8 luglio 2015

Annullamento in autotutela, questo sconosciuto.



Accade spesso che il cittadino, destinatario di un avviso di pagamento oggettivamente errato, si rivolga direttamente all’Ente che lo ha emesso, presentando istanza di annullamento in autotutela.
Ma cos’è l’annullamento in autotutela (o d’ufficio)?
Si tratta di un procedimento molto economico e dai tempi (auspicabilmente) ragionevoli, in base al quale – in estrema sintesi – la Pubblica Amministrazione (di propria iniziativa o su iniziativa del destinatario di un provvedimento amministrativo ingiusto) può annullare l’atto emesso, così liberando il destinatario dall’obbligo del pagamento di fatto non dovuto.
Tale potere della P.A. è espressamente riconosciuto dall’art. 21-nonies della legge 241/1990, come modificata dalla legge n. 15/2005.
Spesso, tuttavia, accade che le istanze di annullamento in autotutela presentate dai cittadini vengano pressoché ignorate dall’Amministrazione, la quale procede a pretendere l’esecuzione dell’atto illegittimo, nonostante la segnalazione del destinatario. Si comprende, quindi, che, in assenza di una P.A. attenta e collaborativa, il procedimento di annullamento in autotutela rischia di tradursi in un iter puramente burocratico sterile ed inutile.
Ma cosa accade se, presentata istanza di annullamento
in autotutela, la Pubblica Amministrazione fa “orecchie da mercante”?
Il cittadino è costretto ad esercitare un’apposita azione giudiziaria, per far sì che il Giudice annulli l’atto che poteva essere rapidamente – e a costo zero – annullato dallo stesso Ente che lo aveva emesso.
Ebbene, in tali casi, un “risveglio” tardivo della Pubblica Amministrazione non è esente da conseguenze a carico di quest’ultima.
Vi raccontiamo, a tal riguardo, il caso di un nostro associato, che per ben due volte aveva domandato l’annullamento in autotutela di alcuni avvisi di pagamento di canone acqua, chiaramente non dovuti, notificatigli dal Comune.
Entrambe le istanze di annullamento, regolarmente acquisite e protocollate dall’Ente, erano precipitate nell’oblio, così costringendo il contribuente ad agire in giudizio sopportandone i costi.
Nelle more della causa giudiziaria, dopo la notifica dell’atto di citazione, il Comune sembrava aver per la prima volta preso in considerazione il problema segnalato dal contribuente, un problema che avrebbe potuto essere risolto due anni addietro, senza oneri per nessuno. In conseguenza della notifica dell’atto di citazione in giudizio da parte del cittadino, il tanto agognato provvedimento di annullamento d’ufficio veniva adottato dal Comune.
Il Giudice di Pace di Reggio Calabria, tuttavia, con sentenza n. 781 del 26 giugno 2015 non si è limitato a dichiarare cessata la materia del contendere, ma, valutata la condotta dell’Ente comunale, che aveva costretto il cittadino ad intraprendere l’azione giudiziaria, ha giustamente condannato il Comune al rimborso di onerose spese di causa. Si legge nella sentenza in discorso che “l’Amministrazione opposta, usando la normale diligenza, avrebbe potuto intervenire prima senza costringere l’interessato a proporre opposizione, pertanto, in ragione della soccombenza il Comune di Reggio Calabria va invece condannato al pagamento delle spese di giudizio”.
È lecito chiedersi quanto una condotta più attenta della Pubblica Amministrazione alle legittime richieste dei cittadini possa tradursi in un considerevole risparmio di spese inutili a carico delle casse pubbliche, soprattutto in presenza di situazioni pacifiche e di facile soluzione al di fuori delle aule di giustizia.

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