Accade spesso che il
cittadino, destinatario di un avviso di pagamento oggettivamente errato, si
rivolga direttamente all’Ente che lo ha emesso, presentando istanza di
annullamento in autotutela.
Ma cos’è l’annullamento in
autotutela (o d’ufficio)?
Si tratta di un procedimento
molto economico e dai tempi (auspicabilmente) ragionevoli, in base al quale –
in estrema sintesi – la Pubblica Amministrazione (di propria iniziativa o su
iniziativa del destinatario di un provvedimento amministrativo ingiusto) può
annullare l’atto emesso, così liberando il destinatario dall’obbligo del
pagamento di fatto non dovuto.
Tale potere della P.A. è
espressamente riconosciuto dall’art. 21-nonies della legge 241/1990, come
modificata dalla legge n. 15/2005.
Spesso, tuttavia, accade che
le istanze di annullamento in autotutela presentate dai cittadini vengano
pressoché ignorate dall’Amministrazione, la quale procede a pretendere l’esecuzione
dell’atto illegittimo, nonostante la segnalazione del destinatario. Si
comprende, quindi, che, in assenza di una P.A. attenta e collaborativa, il
procedimento di annullamento in autotutela rischia di tradursi in un iter
puramente burocratico sterile ed inutile.
Ma cosa accade se, presentata
istanza di annullamento
in autotutela, la Pubblica Amministrazione fa “orecchie da mercante”?
in autotutela, la Pubblica Amministrazione fa “orecchie da mercante”?
Il cittadino è
costretto ad esercitare un’apposita azione giudiziaria, per far sì che il
Giudice annulli l’atto che poteva essere rapidamente – e a costo zero –
annullato dallo stesso Ente che lo aveva emesso.
Ebbene, in tali casi, un “risveglio”
tardivo della Pubblica Amministrazione non è esente da conseguenze a carico di
quest’ultima.
Vi raccontiamo, a tal
riguardo, il caso di un nostro associato, che per ben due volte aveva domandato
l’annullamento in autotutela di alcuni avvisi di pagamento di canone acqua, chiaramente non
dovuti, notificatigli dal Comune.
Entrambe le istanze di
annullamento, regolarmente acquisite e protocollate dall’Ente, erano
precipitate nell’oblio, così costringendo il contribuente ad agire in giudizio
sopportandone i costi.
Nelle more della causa
giudiziaria, dopo la notifica dell’atto di citazione, il Comune sembrava aver
per la prima volta preso in considerazione il problema segnalato dal
contribuente, un problema che avrebbe potuto essere risolto due anni addietro,
senza oneri per nessuno. In conseguenza della notifica dell’atto di citazione
in giudizio da parte del cittadino, il tanto agognato provvedimento di
annullamento d’ufficio veniva adottato dal Comune.
Il Giudice di Pace di Reggio
Calabria, tuttavia, con sentenza n. 781 del 26 giugno 2015 non si è limitato a
dichiarare cessata la materia del contendere, ma, valutata la condotta dell’Ente
comunale, che aveva costretto il cittadino ad intraprendere l’azione
giudiziaria, ha giustamente condannato il Comune al rimborso di onerose spese
di causa. Si legge nella sentenza in discorso che “l’Amministrazione opposta, usando la normale diligenza, avrebbe potuto
intervenire prima senza costringere l’interessato a proporre opposizione,
pertanto, in ragione della soccombenza il Comune di Reggio Calabria va invece
condannato al pagamento delle spese di giudizio”.
È lecito chiedersi quanto una
condotta più attenta della Pubblica Amministrazione alle legittime richieste
dei cittadini possa tradursi in un considerevole risparmio di spese inutili a
carico delle casse pubbliche, soprattutto in presenza di situazioni pacifiche e
di facile soluzione al di fuori delle aule di giustizia.